[ Bompiani, Milano 2011 ]
Peccato. Il nuovo libro di Alex Ross non conferma le grandi aspettative create dopo il precedente bestseller, Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo, che può annoverarsi tra i testi più accattivanti e stimolanti sulla musica del Novecento.
Ciò che colpiva era il metodo di ricostruzione storica che attingeva alle varie discipline (sociologia, psicoanalisi, storia, analisi musicologica, letteratura, storia dell’arte) attraverso una dinamica interazione di competenze. La scommessa di Ross consisteva nel rendere romanzesca (e documentata) la storia musicale del Novecento, e di integrare di dense osservazioni musicologiche l’evolversi storico del secolo breve.
Una scommessa vinta, un risultato stupefacente per ricchezza di dati, osservazioni, valutazioni critiche, intreccio di relazioni e scoperta di reciproche influenze.
Non si può dire lo stesso della sua ultima fatica.
Non che la competenza storico-musicologica venga meno, anzi. A questo proposito vale la pena sottolineare il capitolo «Ciaccona, lamento, walking blues. Linee di basso della storia musicale» in cui Ross affronta uno stereotipo compositivo (tra Rinascimento e Barocco) e ne rivela le ripercussioni romantiche o contemporanee, fino a Ligeti e ai procedimenti blues della canzone contemporanea. Qui il metodo eclettico funziona: approfondisce la natura topica e retorica di una costante e ne rivela il sotterraneo replicarsi fino a noi con un valore emotivo che il tempo trasforma, ma non muta nella propria identità emotiva e profonda.
Diverso, invece, è il messaggio di fondo del libro: la conciliazione fra musica classica e musica rock (pop ecc.) in nome della “musica”. È abbastanza facile, ma superficiale, ritenere che il giudizio di valore possa prescindere da una seria considerazione di mezzi, scopi e materiali. Su questo ha espresso opinioni illuminanti già Carl Dahlhaus in Analisi musicale e giudizio estetico (1987 [1970]), in cui si dimostra la centralità della competenza, la padronanza della metodologia analitica per mettere in luce, per esempio, il divario intrinseco fra produzione “colta” e musica leggera.
È davvero strano e inspiegabile come in ambito musicale non si riesca a ottenere la stessa obiettività di giudizio, così evidente nell’area letteraria. A nessun critico letterario (se non forse per interessi meramente sociologici) verrebbe in mente di considerare degno di attenzione un prodotto che non avesse determinati requisiti conoscitivi e strutturali. Né credo che il criterio valutativo possa restringersi all’impatto emotivo e al riscontro di risultanze viscerali.Come diceva Adorno, «de gustibus est disputandum», perché non vi è nulla di più ideologico dell’estetico, soprattutto quando dietro l’adesione “democratica” al presente si nasconde una vera incapacità di selezione intellettuale e valoriale.
Non è questo il caso di Ross, ed è proprio per tale motivo che il suo ultimo libro mi ha lasciato deluso e perplesso. E forse la migliore risposta a Ross viene da un altro musicologo americano, Lawrence Kramer, il quale, in un’appassionata difesa della musica classica, afferma: «Questa musica aiuta a conoscere tanto quanto invita a riflettere; studiarla e scriverne sono per me strumenti per meditare su grandi temi culturali e storici, sull’identità, il desiderio e il significato delle cose». Non tutto è Letteratura come non tutto è Musica.
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